La catena degli Appennini costituisce il territorio che rappresenta geograficamente la spina dorsale del nostro Paese, animato dall’attività degli operatori del turismo invernale che, insieme a quelli delle località prealpine, stanno soffrendo a livello economico ed umano a causa di un ulteriore inverno difficile caratterizzato in molti casi da importanti sforzi (solo in parte ripagati dagli incassi riscontrati) per aprire solo parzialmente i propri comprensori, dove è stato possibile.
E poi, da una parte ecco coloro che continuano a gridare alle catastrofiche conseguenze che avrebbe sul nostro settore il cambiamento climatico in corso senza domandarsi, solo per esempio, cosa succederebbe agli stabilimenti balneari nel caso in cui il livello del mare si dovesse elevare di due metri cosi come previsto per il 2100.
Perché non si preoccupano oggi di mantenere gli stabilimenti balneari solo se superiori di due metri rispetto al livello del mare attuale e lasciar morire gli altri?
Perché altrettanto, come fanno per le stazioni sciistiche, non lo gridano a gran voce?
Certamente siamo consapevoli che ci troviamo di fronte a eventi che cambieranno, come di fatto hanno già cambiato, il modo di gestire le stazioni sciistiche.
Tuttavia dalla nostra parte abbiamo la tecnologia che nel corso degli anni ha abbassato il costo della produzione programmata della neve grazie ad una sempre maggiore attenzione a quelli che sono i consumi energetici, ha di fatto abbassato il limite del freddo umido a cui viene prodotta neve programmata e sta lavorando a soluzioni per produrre la neve anche a temperature superiori allo zero.
Dall’altra parte ci sono le pazzie del Meteo quello vero, quello che ti copre le piste di neve a novembre e poi te la porta via, te le ricopre nuovamente a metà dicembre e poi te la riporta via e poi ti lascia senza freddo e senza neve per un mese.
La questione non è più se nevica o se non nevica ma quando nevica e cosa succede dopo.
Con le belle giornate che si sono susseguite, la poche decine di centimetri di neve che era caduta ed il giusto freddo al momento giusto sarebbe stata una stagione da record per tutti.
Sfortunatamente così non è stato e allora con la razionalità che ci impone il governare delle realtà economiche (che ricordiamo hanno anche delle ricadute dirette sull’intero sistema economico di una parte importante del territorio italiano) dobbiamo riflettere seriamente su come organizzare il futuro delle nostre aziende.
È giunto il momento affinché il mondo politico e amministrativo insieme a quello economico e sociale si rendano conto che ci stiamo veramente avvicinando a un punto di non ritorno per delle aziende nate per gestire degli impianti di risalita a cui oggi si sono stati assegnati in maniera esclusiva ulteriori oneri riferiti ai costi relativi alla gestione delle piste nel suo complesso con l’innevamento, la battitura, la sicurezza, il primo soccorso ecc. e spesso anche oneri di carattere esclusivamente sociale, la mobilità in paese per citarne uno.
Stazioni sciistiche vicine alle grandi città che hanno fatto la storia dello sci Italiano e del turismo bianco (non è un caso che proprio qui, e non sulle più alte vette alpine, sia nato il fenomeno di massa dello sci) rischiano di sparire, pur nella riconosciuta situazione di non avere nulla da invidiare alle più rinomate stazioni alpine per le caratteristiche tecniche dei propri servizi.
Il cambiamento climatico è certamente un dato ad oggi incontrovertibile, ma la stessa cosa vale per la funzione di volano che esercitano le nostre aziende nei confronti dell’intero sistema economico della montagna italiana e, se ce ne fosse bisogno, questa stagione ne è stata un’ulteriore conferma.
Purtroppo (o per fortuna per loro) le altre componenti della filiera economica non hanno rilevato dati drammatici come i nostri, ma questo è stato reso possibile solo al nostro lavoro di produzione della neve programmata.
Un silenzio assordante
Il silenzio ridondante che però sussiste su questa situazione ci fa enormemente preoccupare, sembra sempre che vada tutto bene.
Quando si parla di Olimpiadi nessuna parola e nessun progetto si avvicina al termine APPENNINO.
Si rilanciano importanti progetti di sviluppo, sicuramente rilevanti e condivisi, con collegamenti tra le varie grandi realtà turistiche alpine, ma non si parla di mantenere ciò che abbiamo sull’intero territorio nazionale.
Una cosa è certa: da parte nostra non rispetteremo il silenzio che dilaga su questa parte importante di territorio italiano (l’Appennino rappresenta il 35,2% del territorio dell’Italia e il 53% del totale del territorio montano italiano, distribuito lungo i 1.400 Km che dal Colle di Cadibona arrivano fino all’Appennino Siculo e alle Montagne della Sardegna.).
E chi con noi condividerà queste battaglie ci troverà a suo fianco nelle rivendicazioni, consapevoli che uno sviluppo equilibrato e condiviso sia l’unico fattore possibile per far sì che la Montagna Italiana a qualsiasi altitudine, latitudine e longitudine si trovi, sia percepita come un bene nazionale.
Un bene non da proteggere ma anzi da sviluppare, evitando di allargare ulteriormente la forbice esistente tra le diverse realtà sul territorio solo per il fatto di essere o meno situate in regioni a statuto speciale.
Questo è quanto rivendichiamo a gran voce a nome del complesso delle stazioni piemontesi ed appeniniche, di quelle lombarde e venete che fanno parte della nostra associazione, perché prima di ogni altra cosa, oggi, è necessario che siano condivise le idee e le proposte, che si individuino le risorse e le forme gestionali opportune per il mantenimento e lo sviluppo di tutte queste realtà, all’interno di un Piano «Alp-ennino» che deve vedere come principali protagonisti coloro che gestiscono gli impianti a fune.