Zeno Colò non è stato soltanto il primo fuoriclasse dello sci italiano, il campione che insieme ad altri campioni (Gino Bartali, Fausto Coppi, Adolfo Consolini) ha fatto dello sport una delle chiavi per riscattare il prestigio dell’Italia agli occhi del mondo, per costruirne una nuova immagine sulle macerie fisiche e morali lasciate dalla seconda guerra mondiale.
Per celebrare il centenario della sua nascita (30 giugno 1920) al quale l’Abetone dedicherà lungo il corso dell’anno una serie di iniziative, sono da ricordare naturalmente le sue leggendarie imprese sportive.
Le due medaglie d’oro in discesa e in gigante ai Campionati Mondiali di Aspen del 1950, il trionfo in discesa alle Olimpiadi di Oslo del 1952 sulla terrificante pista di Nörefjell, il record di velocità di 159,292 km/h stabilito il 9 maggio del 1947 a Cervinia, la vittoria nella discesa del Lauberhorn di Wengen nel 1948, la conquista del distintivo d’oro al concorso dell’Arlberg Kandahar nel 1949 e nel 1951.
La sfilza di titoli italiani (una trentina) e tutto il resto, comprese la ignominiosa squalifica subita per «professionismo» che gli impedì di vincere ancora ai Mondiali di Åre del 1954 (scese come apripista con il miglior tempo ufficioso) e la superiore eleganza con la quale, nonostante quell’orripilante e codardo sgarbo mai certificato da nessun documento scritto, accettò di fare il tedoforo alle Olimpiadi di Cortina del 1956.
Sulla neve il grande Zeno è stato ardimento, coraggio da leone, velocità, forza fisica e sapienza tecnica, pochi capelli in testa e tante (troppe) sigarette tra le labbra.
Le parole misurate e il cuore d’oro. L’orgoglio e l’umiltà. Le radici tra i boschi della Consuma e tra i crinali dell’Appennino.
La misura dei silenzi e la forza dei fatti, delle strabilianti imprese compiute con sci che erano rigidi blocchi di legno, putrelle di due metri e trenta domate con l’intelligenza pragmatica di chi sperimentava soluzioni nuove per lamine e solette, per abbigliamento, attacchi, posizioni aerodinamiche.
Il grande Zeno e il suo mito sono per sempre nella storia dello sci italiano, primo punto cardinale di una tradizione che ha avuto come altri vertici di eccellenza Gustavo Thöni, Alberto Tomba e, oggi, Dominik Paris.
Certo, il grande Zeno è stato tutto questo ma non solo. Come uomo di sci che aveva girato un bel po’ di mondo e come cittadino di quella frazione di Cutigliano che scavalca l’Appennino tra la Toscana e l’Emilia capiva e viveva l’esigenza di sviluppare la sua località per spalancarle prospettive di crescita turistica.
Zeno Colò è stato anche un operatore del turismo invernale e per questo merita questo spazio su pM, rivista di riferimento per gli operatori professionali della montagna bianca.
È stato lui il promotore, la bandiera della sottoscrizione popolare che nel 1969 ha dato vita alla Società Abetone Funivie per la costruzione dell’ovovia del Monte Gomito destinata a collegare l’Abetone con la Val di Luce; era sua l’idea limpida della necessità di realizzare un comprensorio vasto che desse più aria, più sciabilità, più possibilità di discese per aumentare l’offerta turistica.
Ha vissuto da presidente della nuova società le traversie burocratiche e un certo «fuoco amico» che hanno ostacolato la realizzazione del progetto fino alla sospirata inaugurazione dell’impianto nel 1974.
Lui ci aveva messo la faccia e il suo solito cuore, aveva guidato il suo trattore per contribuire ai lavori dell’installazione, aveva dato il suo nome (Zeno 1, Zeno 2, Zeno 3) alle nuove piste che, grazie all’ovovia, andavano praticamente a raddoppiare il kilometraggio dello skirama abetonese da 30 a 60 km circa.
Da allora l’Abetone è diventato qualcosa di più del piccolo e prodigioso scrigno di talenti dell’agonismo (oltre a Zeno, Rolando Zanni, Vittorio Chierroni, Celina Seghi e dopo di loro Gaetano Coppi, Paride Milianti), una stazione invernale dell’Appenino capace di non sfigurare nel confronto con l’offerta sciistica delle località alpine.
Il grande Zeno se n’è andato il 12 maggio 1993, prima che la «sua» ovovia venisse sostituita da un impianto Leitner più moderno nel 1999.
Se n’è andato come non avrebbe mai dovuto e voluto, lentamente, vinto dal male che gli aveva mangiato un polmone e gli ha tolto adagio gli ultimi respiri.
Una crudele contraddizione per uno come lui che si fumava i cento all’ora sugli sci come fossero Nazionali senza filtro e truccava la sua automobile per viaggiare più veloce.
Ha lasciato in eredità il patrimonio di una vicenda umana e di una storia sportiva indimenticabili, dove anche un’ovovia brilla preziosa nel palmarès del leggendario «falco di Oslo».