Il coronavirus ha scagliato all’improvviso un sasso mortifero tra gli ingranaggi del mondo ma non è dato sapere se, una volta usciti dall’incubo, l’umanità riuscirà a trarre qualche lezione da questa allucinante esperienza da tempo di guerra.
«Spero almeno che ci serva per diventare migliori, per cambiare e riscoprire certi valori che gli egoismi e i particolarismi hanno appannato».
Chi ci ha espresso questo auspicio quando l’abbiamo interrogato, tra diversi altri, sulla chiusura degli impianti sciistici del 10 marzo non è un politico o un sociologo o un moralista o un «buonista» ma un uomo di montagna, un operatore del turismo invernale che ha vissuto abbastanza da averne viste tante («…ma una cosa del genere non era mai successa»).
Ferruccio Fournier porta ancora in giro sulla neve i suoi ottant’anni vigorosi, è una specie di «totem» della montagna bianca valdostana, può ricordare i tempi eroici del pionerismo funiviario e tanti altri momenti critici nella storia dell’imprenditoria impiantistica «come il periodo della crisi energetica dei primi anni Settanta» ma non se la sente proprio di stracciarsi le vesti perché per la prima volta la stagione sciistica è stata interrotta con quasi due mesi d’anticipo per un decreto del Governo, anzi ne ha tratto ragioni per alcune riflessioni di ampio respiro.
«Dobbiamo tornare a pensare come comunità – ci ha detto – e a valutare i bisogni collettivi primari come la salute pubblica con senso di responsabilità e di solidarietà. Siamo tutti sulla stessa barca e i problemi si risolvono insieme, non dividendosi».
È un auspicio ragionevole anche se non sembra che dai quattro angoli di questo nostro mondo ci sia unanimità di vedute su questo punto.
Proprio nel pieno dell’emergenza i comportamenti e le decisioni di diversi Stati non sono sembrati sempre ispirati alla condivisione e alla collaborazione ripronendo schemi di chiusure e distinzioni discutibili, tanto per usare un eufemismo.
E prima dell’esplosione dell’infezione e del contagio globale da Covid19 era già successa un’altra cosa che non sembra andare nella direzione auspicata da Fournier: dal 31 gennaio la Gran Bretagna è formalmente fuori dall’Unione Europea a tre anni dal referendum con il quale i sudditi di Sua Maestà Elisabetta II avevano deciso, con una risicata maggioranza, di staccarsi per tornare a stare soli e a fare tutto da soli.
Sul piano politico internazionale, la vittoria del «sì» all’uscita dall’Unione Europea è un evento che avrà certamente ripercussioni di diversa natura, politiche, economiche, commerciali.
Pare che non sarà indolore per la stessa Gran Bretagna viste le forti spinte separatiste che animano Scozia e Irlanda del Nord (da sempre schierate per il remain) che, come in molte altre regioni europee (Catalogna ed altre) richiedono autonomia dai governi centrali per motivi diversi, etnici, religiosi, culturali, economici.
E non sarà indolore per l’Unione Europea che perde un importante partner e si trova a gestire un precedente che probabilmente altri vorranno seguire visti i già conclamati e ricorrenti spinte a Nord e a Sud del continente di singoli movimenti nazionalistici per uscire dall’Unione.
Quell’Unione che dovrebbe sempre più crescere e compattarsi per competere nel nuovo mondo globalizzato e invece cova dentro di sé i germi dei nazionalismi e dei particolarismi, una tendenza quest’ultima che tocca anche il microcosmo del turismo della montagna.
«Anche nel nostro mondo – ci ha detto Ferruccio – dobbiamo fare un esame di coscienza ed evitare posizioni e iniziative in contrasto le une con le altre».
Si riferiva ai diversi tempi e ai diversi modi con cui le singole Regioni e le singole località si sono atteggiate di fronte alla necessità di rispondere all’emergenza coonavirus; si riferiva, evidentemente, alla necessità di stare insieme, di essere comunità, di fare sistema.
Ma da anni (da sempre…), in ogni occasione di convegno e/o tavole rotonde, si ascoltano prolusioni che predicano la necessità di «fare sistema»!
Si sente (da sempre…) affermare categoricamente che «Occorre perseguire e trovare finalmente una comunione di intenti che vada incontro agli interessi trasversali di tutte le categorie professionali che operano in montagna».
Ma da sempre ai propositi spesso non sono seguiti comportamenti coerenti.
«Fare sistema» dovrebbe voler dire presentare il turismo della montagna in modo organico e unitario mentre spesso, ad esempio, i tentativi di dialogo con le istituzioni sono portati avanti singolarmente in modo frammentario e scoordinato dall’una o dall’altra categoria professionale, convinta probabilmente di poter spuntare benefici maggiori a discapito delle altre realtà associative o geografiche.
Un carattere dominante dello spirito italiano (basta rileggere Guicciardini…) si manifesta in un istinto individualista.
Questa italica propensione sarebbe un pregio capace di diventare un prezioso valore aggiunto se le proverbiali capacità del singolo confluissero in una forza comune tesa al bene comune.
Invece no, noi spesso quasi ci divertiamo a dividerci. Ognuno pensa al proprio orticello, pianta paletti di recinzione, alza steccati.
Non è proprio il caso, perché poi può sempre arrivare un virus che manda all’aria ogni certezza e affonda ogni presunzione di autosufficienza o addirittura di superiorità.