Perché a noi uomini riesce tanto difficile agire con responsabilità etica perfino nello Sport? Perché rischiamo la vita pur di vincere? Perché compromettiamo la nostra salute pur di raggiungere fama e successo? Per trovare una risposta a queste domande, ci può aiutare una delle tante pubblicazioni del prof. Arturo Hotz che si occupa di questioni etiche, di processi di ottimizzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento, nonché di questioni scientifico-sportive, per numerose Università. è allenatore delle nazionali di bob e sci alpino, segretario scientifico presso il Fondo svizzero per la promozione della ricerca scientifica ed è redattore di alcune riviste. Hotz, riferendosi agli aspetti negativi dell’alto livello, in particolare al doping, sostiene che: «gli sportivi, in quanto dotati di libertà di decisione non è detto che – fintanto che non ne derivino conseguenze penali – osservino comportamenti etici coerenti con il senso di fare sport e con le norme che ne definiscono l’eticità». Sembra che, senza una punizione penale, lo sportivo rischi la propria vita e la propria salute pur di ottenere vittorie, fama e successo ed a volte neppure questa minaccia lo mette a riparo da tali tentazioni. Aggiunge poi: «Se si fa dello sport una questione di vita (vincere) o di morte (perdere), all’atleta o allo sportivo – sia esso tecnico, dirigente o perfino spettatore – sotto pressione e stressato, importano assai poco gli orientamenti etici. In circostanze in cui senta minacciata la sua esistenza, l’uomo non si pone il problema della “responsabilità etica”: agisce seguendo l’istinto di sopravvivenza o dell’interesse personale». Lo stesso Freud, più di cent’anni fa, sosteneva che la vita era guidata da due forze interiori che ne influenzano i comportamenti umani: Eros e Thanatos che sono rispettivamente la pulsione di vita e la pulsione di morte. Quindi dobbiamo arrenderci alla pulsionalità dell’uomo a discapito della razionalità? Vi lascio con questa riflessione e sposto il focus dell’argomento sul settore giovanile, dove anche i piccoli atleti sciatori si cimentano ad ottenere successo e riconoscimento. A volte, per un figlio poco amato (intendo in modo incondizionato) lo sport è «la seconda chanche» per ottenere stima e affetto dai propri genitori. Per sapere quanto amiamo e accettiamo nostro figlio, chiediamoci semplicemente quanto coincidono il figlio «ideale» che abbiamo in testa con il figlio «reale» che esiste e vive ogni giorno oggettivamente nella realtà quotidiana. Sentirsi «riconosciuti» significa percepirsi di valere, essere degni d’amore, essere all’altezza del proprio ruolo di figlio/sportivo e tutto questo non solo influisce sull’autostima del piccolo atleta ma anche sulla sua stessa crescita.
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