Mettiamola così: gli italiani sono a un livello troppo alto per il canone europeo. Se «alto» fosse in termini negativi, si capirebbe subito che si sta parlando del debito pubblico, ma questa volta «alto» è proprio in termini positivi, e stiamo parlando dei maestri di sci. I maestri di sci italiani sono troppo bravi rispetto alla media dei maestri europei. Sono i soli, infatti, ad avere un unico livello professionale, quando gli altri ne hanno due o addirittura tre. La cosa sta creando qualche problema nel cosiddetto mercato unico. Tutti i maestri italiani possono insegnare a chiunque e dovunque; gli altri, no. Non in Italia, per esempio, dove, non essendo contemplata la figura del maestro di livello inferiore, chi lo è non può esercitare. Sono in molti, e tra questi anche qualche nostro connazionale, quelli che chiedono di uniformarsi alle altre nazioni europee, formando maestri di vari livelli. È sbagliato. Anzi, di più.
Il nostro livello unico – negli anni 80 anche in Italia c’era la suddivisione dei maestri in tre categorie – fu la più riuscita operazione di marketing della storia della neve. Affinché, infatti, essere maestro di sci non fosse solo il titolo per esercitare una professione ma un vero e proprio valore – uno status, riferibile alla persona che lo deteneva (si dice, infatti, con orgoglio, «sono maestro di sci» e non «faccio il maestro di sci» ) – era necessario che diventassero maestri di sci solo i più bravi sciatori dell’arco alpino. Per cui i criteri di selezione e di formazione furono fin dall’inizio estremamente esigenti. Non si trattava, come non si tratta oggi, di una severità fine a se stessa o, addirittura, di clan (buoni con i nostri, cattivi con gli altri), ma di una severità che originava da una scelta coerente e logica: diventava maestro di sci solo chi sciava davvero bene, come chi aveva iniziato a 6 anni nello sci club e poi, tra allenamenti e gare, aveva continuato fino all’anno della selezione, quando per un’intera estate, un autunno e un inverno, intensificava gli esercizi in campo libero per presentarsi, smussate le sbavature dell’agonismo, all’esame di primavera. Chi usciva dai Comitati o addirittura dalle Squadre Nazionali e si era messo un po’ a posto nella figura, generalmente passava subito; chi, per ragioni di studio o di lavoro, si era preso qualche breve pausa dall’agonismo faceva più fatica e ci impiegava qualche selezione in più. Però, gli uni e gli altri erano tutti giovani cresciuti con gli sci ai piedi e la neve nel cuore. Viceversa, chi, dall’oggi al domani s’innamorava dello sci al punto di aspirare a diventare maestro e si presentava alle selezioni con tre o quattro stagioni di sci impegnato, veniva inevitabilmente bocciato. Era come pretendere d’iscriversi all’università senza aver conseguito la maturità liceale. E la maturità nello sci, ripetiamo, era iscriversi alla selezione quando ancora si era atleti attivi almeno dello sci club. Questa continuità sciistica era decisiva. Dava garanzie tecniche e di passione senza le quali non può esserci un maestro di sci. Da qui viene la meritocrazia che fin dal 1932 ha contraddistinto la figura del maestro di sci, per cui, nel tempo, il titolo è stato indice di pochi sciatori davvero capaci. E questa è stata, come dicevamo, la prima e più importante e meglio riuscita operazione di marketing del mondo della neve, del tutto simile a quella che praticava Enzo Ferrari, quando produceva solo 398 auto, perché ci fosse sempre qualcuno nel mondo che continuasse a desiderare una Ferrari, pur avendone i soldi. In modo del tutto analogo, se erano pochi quelli che diventavano maestri, erano tanti quelli per i quali rimaneva un desiderio. E questo ha generato nei decenni una situazione virtuosa per cui i campioni dello sci azzurro non trovassero disdicevole continuare a sciare come maestri; per cui i ragazzini degli sci club italiani, diversamente da quelli austriaci, ammirassero di più il proprio maestro del campione della nazionale; per cui decine e decine di giovani e meno giovani, perfino delle più alte estrazioni sociali e professionali, a ogni stagione continuassero a desiderare di diventar maestri per coronare una loro realizzazione personale; per cui – e questo ha del miracoloso – «maestro di sci» sia oggi ancora un titolo considerato vero, serio, rispettabile come in Italia pochi altri titoli hanno. Un prestigio e un rispetto, attenzione, non astratto o snobistico ma pienamente riconosciuto dal mercato che non ha mai chiesto «accompagnatori» ma ha sempre voluto «maestri» e per lo più maestri bravi, come appunto a Enzo Ferrari non chiedevano «utilitarie» per andare a fare la spesa ma «fuoriserie» capaci di esprimere l’alto status sociale raggiunto: un’auto vincente per un uomo vincente. Per arrivare a questo nello sci, non poteva esistere la figura del «maestro di secondo e terzo grado». Il maestro dello spazzaneve è come dire una Ferrari city car elettrica. Non esiste: è una contraddizione in termini. L’eccellenza non ha mezze misure, non conosce compromessi: o si è o non si è bravi (i maestri); o si è o non si è una top car (la Ferrari). E poi ci sarebbero stati troppi titolati all’insegnamento e questo avrebbe inevitabilmente sminuito il valore del titolo. Negli anni Ottanta, perciò, s’istituì coerentemente la figura del maestro di un unico livello. Sia l’Europa, allora, a seguire l’Italia una volta tanto, tenendo alto il livello che è l’unico modo affinché il maestro di sci continui ad avere il fascino e il prestigio di grande sciatore senza mai esser confuso per un babysitter della neve. x
“
Add Comment