Non è il titolo di un film, ma potrebbe anche esserlo. La vita non finisce mai, più semplicemente, è una frase che ripeteva sempre Camillo Onesti, quando si trovava di fronte alla discussione di una persona scomparsa. Anzi, premetteva anche: «Ma che importa…» Credo non si riferisse a un concetto religioso, ma alle tracce di vita che ogni persona lascia di sé, nel bene o nel male. È una cosa diversa dal ricordo, perché il ricordo compare nella mente in determinate occasioni o al divenire di uno stato d’animo. Per Camillo quella persona non c’è più, ma la sua presenza è ininfluente se è riuscito a far parlare di sé. Più che un pensiero si trattava di un autoritratto, probabilmente consapevole. Da lì la forza e la voglia di inventare e trasmettere agli altri tutto il suo entusiasmo. Anche «il Camillo» non c’è più, ma se lasciamo per un attimo da parte il dolore per non potere più averlo davanti a noi, che cosa rimane? Tutto, esattamente tutto quello per cui spesso e volentieri lo citiamo. A partire dall’espressione, una vera e propria caricatura, con quegli occhi alla Alan Ford sempre sgranati che ti ipnotizzavano e ti obbligavano a rimanere incollato al suo sguardo. E con quella enfasi nel parlare, indipendentemente fosse una discussione accesa o normale. Ti portava su o giù, come e dove voleva lui, convincendoti quasi sempre, anche quando mai e poi mai avresti potuto arrivare a determinate conclusioni. Merito di quello che aveva dentro, uno spirito di competizione innato col quale affrontava qualsiasi cosa. Tutto con una dose di entusiasmo fuori dal comune. Quei tipi che sanno prendere in mano la situazione, sempre: dai, dai, su, su, allora… Quello che accadeva in mezzo ai boschi, sulle salite delo sci nordico, era un vero spasso. Vedeva spuntare là in fondo Steffy Belmondo o Manu di Centa. Iniziava a urlare quando ancora era impossibile loro sentissero. Man mano che si avvicinavano la voce diventava assordante, l’arcata degli occhi si dilatava, e quando finalmente entrava quasi in contatto con loro, gridava in maniera così concitata da non riuscire a costruire una parola di senso compiuto. Insomma, raggiunta la fine della salita Manu o Steffy non avevano capito nulla sui distacchi, i ritardi o il consiglio di darla a tutta o tirare il fiato. Poi raggiungeva il traguardo e ai giornalisti sussurrava: «Gliel’ho detto». Un carisma fuori dal comune pari all’onore. Quando l’allora Presidente Fisi Arrigo Gattai gli chiese di prendere in mano il fondo femminile lui inizialmente rifiutò. Non voleva fare un torto a Mario Azittà. Ma fu proprio l’ex Cittì Azzurro a spingerlo su quella poltrona, perché in quel periodo il fondo aveva bisogno di gente come lui. Non era un mago e ci ha messo un bel po’ prima di portare a casa dei risultati, ma credeva in quelle persone e non le ha mai mollate. Così, dopo 4, 5 anni il Gatto ha potuto aprire la borsa per riempirla di medaglie, una dietro l’altra. Un periodo irripetibile, proseguito anche dopo il suo impegno, perché nella squadra l’aria del Camillo era sempre presente. Nella testa di atleti solisti è riuscito a inculcare il concetto di squadra. Non so quanti sarebbero riusciti a far convivere Di Centa e Belmondo nello stesso team, che pur tra mille staffilate, erano sempre lì, una fianco all’altra. C’era sempre un equilibrio tra aggressività competitiva e riconoscibilità dell’onore, il tutto mescolato nel carattere proprio di quelle due tigri. Quelle cose le aveva pure lui, perché anche dopo aver superato i 70 anni ancora infilava la canotta e le scarpette per andare a correre le maratone, altro suo amore che l’ha portato a costruire il progetto della Stramilano. In alternativa attaccava le pelli di foca sotto ai suoi sci e scalava per aprire vie scialpinistiche, altro settore dove è riuscito a scrivere parecchie imprese. E poi la bicicletta e ogni attività dove la fatica ti morde muscoli e ossa e ti fa rimanere solo a combattere con te stesso. La sua adorata moglie non si è mai opposta, anche di fronte ad azioni quasi irresponsabili, dove il rischio di sfide eccessive avrebbero consigliato chiunque a preferire il divano. Una santa! Ma fermare quel diavolo di un Camillo era impossibile. L’ultimo show si è consumato ad aprile, nella fredda saletta di un hotel milanese, dove Manuela Di Centa aveva richiamato a sé, stampa e sci club, per annunciare la sua candidatura alla Presidenza Fisi. Alla fine, tutti in piedi per andare via dopo le ultime domande dei cronisti, sinceramente scettici sul buon esito della corsa alla poltrona federale. Camillo allora si è alzato dalla prima fila e ha strappato il microfono dalle mani della hostess, con Alessandro Vanoi (suo successore) seduto al suo fianco, pronto a godere per un intervento degno dei bei tempi. Ebbene, se in quella sala ci fosse stata l’intera assemblea elettiva, Manuela sarebbe uscita con la corona in testa. Impossibile non credergli. «Altro che presidenza Fisi, il programma di Manuela dovrebbe essere preso come esempio da una qualsiasi famiglia, perché prevede ogni cosa per crescere sani, robusti e vincenti, con onore e rispetto, con amore e passione». Una frase carina, ma non così travolgente, sa diventare una ragion di vita se a dirla è il Camillo. E tutti sono usciti da quella sala, divenuta caldissima, con un’unica idea: vincerà Manuela. Invece Manu non ce l’ha fatta, ma per fortuna Camillo ha saputo insegnare anche a perdere e a trasformare la delusione in forza e potenza per le sfide successive.
Il Camillo non c’è più e ci mancherà. Mancherà un po’ a tutti, amici, atleti, ex atleti e pure a chi ne ha soltanto sentito parlare. Che stupido, ma come il Camillo non c’è più? La vita, la sua vita, non finirà mai…
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