Un amico alpino di Canelli, cittadina vicina ad Asti, è uscito dalla sua bottega dove vende attrezzi per lo sci, ed è capitato a Torino per una visita di cortesia. All’angolo di via Marconi è già scattata la voglia di calcolare il traffico delle automobili. Gliene sono passate davanti 60 in un minuto. Cioè 3600 all’ora. Cioè 20 chili di ossido di carbonio sparato fuori dai tubi di scappamento che si sono mimetizzati nell’aria della città, assieme a tutti gli altri inquinamenti di veleni e di rumori. Non è diverso il panorama tossico di Milano o di Roma, di Bologna o Firenze, o anche di città più piccole, poiché tutto è in proporzione. Allora il mio amico si domanda quando l’Italia finirà di incretinirsi davanti alla televisione e troverà la voglia e il buonsenso di stabilire un rapporto intelligente tra la vita e la qualità della vita. Per esempio un po’ di ossigeno? Un marinaio darà le sue indicazioni, un alpino vi parla delle sue montagne. Che poi sono di tutti, ma che fatica per andare a toccarle. Dentro alle strutture, variamente etichettate, che per volontariato o designazione provvedono alla cosiddetta difesa dell’ambiente, si annidano gli ottantenni che, all’epoca, sono saliti sui monti con le pelli di foca. Allora i giovani devono fare altrettanto, altrimenti dov’è la poesia? Funivie, cabinovie, seggiovie? Demoni d’acciaio che deturpano i volti delle montagne, divorano gli alberi, mettono in fuga i camosci. Nessuno è così poco verde da non solidarizzare con i Verdi propriamente detti ed i loro scopi che dovrebbero essere (come le montagne appunto), gli obiettivi di tutti. Verdi, ecologisti e dintorni sono fin troppo buoni, politicamente inesperti o inascoltati, se è stato possibile costruire qua e là bunker di cemento armato travestiti da località invernali che il luogo comune definisce, immancabilmente ridenti. E poi grattacieli senza senso, agglomerati di case e alberghi (o simili) che non hanno nessun rapporto con la montagna, puzzano di plastica e di speculazione. Qua e là, forse, anche qualche funivia, qualche seggiovia, qualche pista ha arrecato dei danni. Ci stupiremmo del contrario, l’Italia dei furbi è sempre molto operativa. I Verdi poi sbagliano quando si mettono di traverso e bloccano progetti formidabili legati all’impiantistica, perché bisogna sradicare un rametto o un cespuglio che nemmeno in estate germoglia. Però, tra l’Italia dei furbi e i protettori degli scoiattoli c’è anche un’Italia che ha voglia di andare in montagna a giocare e a divertirsi, a fare dello sport e a respirare l’aria buona. Con il contributo lodevolissimo di un impianto di risalita che è stato creato apposta per depositare la gente in cima ai monti, fermo restando il fatto che nessuno ha mai proibito le pelli di foca. Così come risulta indubbiamente più sportivo salire otto piani di scale a piedi piuttosto che far uso dell’ascensore. Semmai l’ossido di carbonio ti può ammazzare al quarto. Perché, come mai si sono formate queste correnti che ormai vedono ogni cosa solo da estremisti? Da una parte tirano su le case che violentano i daini e i panorami, dall’altra ci sono quelli che in nome dell’ambiente le vogliono tirare giù. In mezzo c’è l’oceano della burocrazia, facsimile di una paralisi inconvertibile. Cioè, tanto per fare nome e cognome, la somma dei Governi Regionali, seppelliti da piani e progetti infiniti, quali sono quelli che ha richiesto la legge Galasso del 1985, (integrata nel 2004 con modifiche). Non si capisce perché non si riesca a scrivere un regolamento generale ed equilibrato da osservare e far osservare. Negli ultimi trent’anni sono stati scritti e riscritti regolamenti che variano da Regione a Regione. Imprenditori speculatori che per la neve non provano alcunché, sono ora alle Maldive, grazie alla vendita degli immobili andati a buon fine. Gli operatori delle località, invece, sono rimasti fregati: case vuote e cemento armato davanti agli occhi ogni mattina. Ora porre rimedio a certi obbrobri è complicato. Eppure non dev’essere impossibile immaginare che c’è anche chi vuole costruire qualcosa senza offendere nulla e nessuno e finanziare magari l’aggiornamento di un impianto o per ingrandire un villaggio. Da chi si fa paladino della natura, mostrando per essa amore e sensibilità, ci aspettiamo qualche interesse anche per i ragazzi che vorrebbero andare a sciare almeno una settimana all’anno. Un progetto di vacanze scolastiche (il progetto Fisi-Miur è già un buon inizio) ci sembra più realizzabile dell’idea di far funzionare le automobili senza benzina o senza gasolio. Apriamo le porte agli zoo ma apriamo anche, con qualche dovere di precedenza, le scuole allo sport. Perché gli ski college, dopo tanti anni, non decollano? Perché i pullman regionali non portano i bambini in montagna? Forse perché i bambini non hanno ancora diritto al voto e allora non interessano. Nel dubbio si potrebbero fare tre o quattro referendum e far cadere un po’ di governi, per i costi non c’è nessun problema: si può sempre inventare la tassa sullo sciatore.
La tassa sullo sciatore
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Marco Di Marco
Nasce a Milano tre anni addietro il primo numero di Sciare (1 dicembre 1966). A sette anni il padre Massimo (fondatore di Sciare) lo porta a vedere i Campionati Italiani di sci alpino. C’era tutta la Valanga Azzurra. Torna a casa e decide che non c’è niente di più bello dello sci. A 14 anni fa il fattorino per la redazione, a 16 si occupa di una rubrica dedicata agli adesivi, a 19 entra in redazione, a 21 fa lo slalom tra l’attrezzatura e la Coppa del Mondo. Nel 1987 inventa la Guida Tecnica all’Acquisto, nel 1988 la rivista OnBoard di snowboard. Nel 1997 crea il sito www.sciaremag.it, nel 1998 assieme a Giulio Rossi dà vita alla Fis Carving Cup. Dopo 8 Mondiali e 5 Olimpiadi, nel 2001 diventa Direttore della Rivista, ruolo che riveste anche oggi. Il Collegio dei maestri di sci del Veneto lo ha nominato Maestro di Sci ad Honorem (ottobre ’23).
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