Il 7 gennaio muore improvvisamente in Germania l’azzurra Simona Senoner; il giorno dopo, gli Azzurri scendono in pista con il lutto al braccio nel gigante di Adelboden. Nello stesso giorno, Marco Fontana, un ragazzo di 14 anni dello sci club Tonezza, dopo aver aiutato il proprio club nell’organizzare la gara di gimkana, sciando con gli amici, va a sbattere contro un sasso e perde la vita; il giorno dopo, la gara circoscrizionale per le categorie ragazzi e allievi, a cui Marco era iscritto, viene annullata. Si poteva, forse era meglio gareggiare, come gli Azzurri, con il lutto al braccio e così onorarne la memoria? No. Gli Azzurri non hanno scelto di scendere in pista, sono stati costretti dall’impersonale logica dello sport professionistico che non si ferma di fronte alla morte di nessuno. Il loro non è un esempio; è una costrizione che origina da un mondo fatto di contratti e vincoli, di clausole e penali, di scartoffie e denaro, dove prima delle persone valgono le loro firme. Viceversa, fermandosi, il Comitato Fisi di Vicenza e lo sci club organizzatore della gara e tutti i club della Circoscrizione si sono comportati come se fossero membri di una famiglia. Se un lutto colpisce una famiglia, a quella famiglia cambia il futuro. Niente è più come prima e ci vuole del tempo perché si possa ricominciare di nuovo, con nuovi progetti, con nuove sfide, con un ritrovato entusiasmo. Questo tempo è il tempo del lutto. Non gareggiando, ci si è comportati come una famiglia a cui improvvisamente è saltato il futuro e si è dovuta fermare. Così si condivide il dolore. Così si è dato prova che Marco era davvero uno di noi, della nostra Circoscrizione, della nostra “famiglia sciistica”. La fascia al braccio è un simbolo troppo debole come lo è il minuto di raccoglimento, l’uno e l’altro subito annullati e resi stridenti da tutto quello che la gara è e che la gara comporta: adrenalina e discesa, malumori e classifica, gioia e premiazioni, opinioni e chiacchiere, strette di mano e incontri. Fermarsi è stato diverso. È stato giusto. Ma lo sport professionistico non può permettersi di considerarsi una famiglia. Ci sono le dirette tv, le logiche commerciali, infinite altre diavolerie per le quali la morte di un’Azzurra non è la morte di una di loro, di un familiare, ma è «solo» la morte di un’atleta. Dallo slittino di Kumaritashvili (febbraio scorso, Vancouver) alla moto di Tomizawa (luglio scorso, Misano) allo sci di Simona nessuna morte di un atleta ferma lo spettacolo; nemmeno lo contraddice: un atleta morto è solo un altro vinto della gara in corso. Così non è stato per noi. Marco era un ragazzo che condivideva i valori della nostra «famiglia sciistica» secondo cui lo sci è vita e le nostre gare sono il modo per esprimere la nostra vitalità, per cui quando maledettamente arriva il contrario di ciò, salta tutto e ci si ferma
“
Add Comment