Massimo Di Marco, fondatore di Sciare e di infinite altre cose, ha “dipinto” il ritratto di Sofia Goggia, pochi giorni dopo il suo infortunio patita a Garmisch.
“E’ dal dolore che si può ricominciare”. Sembra che Sofia Goggia voglia ispirarsi al Premio Nobel del 2001 Vidiadhar Naipaul o più modestamente a “ Giusy” del cantautore Niccolò Moriconi in arte Ultimo quando si guarda il braccio ingessato rispondendo ad una domanda.
O forse è la sua vera filosofia di vita che veste il coraggio di una sciatrice che non assomiglia a nessun’altra tra le pagine dello sci donna. Cado, mi rialzo e ritorno dove avevo cominciato: sulla neve della Coppa del Mondo, c’è qualcosa di strano?
La bambina di 8 anni che vince una gara alla quale partecipano anche i maschietti, è davvero cresciuta tra la felicità delle vittorie ( medaglia d’oro nella discesa alle Olimpiadi di Pyeongchang ) e il dolore di una catena di incidenti che invece di impaurirla l’hanno resa più audace, come se un ginocchio rotto (2009, 2010, 2012, “013, 2015) o la frattura di un malleolo (2018) non facessero parte di un prezzo da pagare ma di una accettabile realtà dello sport che ama.
In tanti e tanti anni non ho mai visto qualcuna che le assomigliasse. Frugo nei ricordi ma mi vengono in mente solo uomini spregiudicati che se ne infischiavano dei rischi cuciti ad una sciata davvero libera.
Del resto chi sceglie la discesa sceglie la sua pericolosa bellezza. Carletto Senoner ha vinto lo slalom ai Mondiali del 1966 a Portillo. E’ stata una grande impresa, ma prima è stato un discesista che sfidava la pista.
“Quando mi sentivo quel vento in faccia e cercavo la velocità in quella che per me era una sfida, mi sembrava di essere in un cielo”. Gli incidenti l’hanno fermato ma la sua voglia di volare è continuata, più quieta, tra i pali.
Del resto Sofia è capace di misurarsi in qualsiasi specialità, purché non le tolgano la sua gara preferita, dove la sua voglia di libertà si scatena tra i brividi di chi la sta guardando. Sofia pilota i suoi sci fuori dalla riga blu, accarezza le reti che chiudono la pista, prende a pugni ogni tipo di esitazione. Follia?
Qualcuno lo dice o la pensa, scende senza compromessi, punta tutto sul rosso o sul nero, in bilico tra la forza centrifuga che a volte ha il sopravvento e il capolavoro: la Coppa del mondo di discesa nel 2018, due medaglie mondiali, il duello spesso vincente con Lindsey Vonn, la sua nemica e anche la sua migliore amica.
E gli incidenti d’auto? Cose da niente, dimenticate subito. Molto bello quello dello scorso anno al Sestriere. Una sterzata necessaria e la sua macchina vola e atterra sul tetto di un furgone. L’immagine surrealista farebbe la sua scena tra le opere Dada esposte nel 1917 al Cabaret Voltaire di Zurigo.
Sofia quando lascia andare gli sci mi fa venire in mente Franz Klammer che alle Olimpiadi del 1976 ha ricamato l’ultima curva del Patscherkofel sciando sulle punte delle scarpe degli spettatori, un inconsapevole contributo alla sua medaglia d’oro.
Ma se dovessi pensare alla tribù più prossima a Sofia sceglierei senz’altro i Crazy Canucks che imperversavano tra la seconda metà del 70 e la prima dell’80: i canadesi pazzi Ken Read, Dave Irwin, Steve Podborski, Dave Murray.
Trasmettevano adrenalina anche attraverso le antenne della televisione: coraggio da vendere, paura zero o passione pura che si esprimeva nel vento come un artista tra i pennelli? Sofia mi fa pensare anche alla leggenda di Jean Claude Killy che a 7 anni scendeva con i suoi piccoli sci dai tetti delle case di Val d’Isère.
Sofia è discussa per il suo modo spregiudicato di sciare ed amata per la stessa ragione. E’ un prevedibile imprevisto, ci sorprende e ci stupisce, è davvero sola con tutta la sua potenza al di là di ogni paradigma in uno spolvero d’ammirazione anche quando la paga cara. Il braccio ingessato, la stagione finita. E le gare continuano. Si può ricominciare. Ci manchi Sofia.