Uno dei contributi di Hemingway all’umanità è di aver spiegato che cos’è lo stile. Lo stile non inteso come l’insieme dei caratteri che determinano una persona o una cosa o un certo modo di praticare lo sci – ciascuna persona, si sa, ha i propri e tutti sono in grado di definirlo: snob, dark, freak, beat, city, chic, radical, conformist, eccetera, eccetera… come ogni cosa: classica, moderna, minimal… come ogni modo di sciare: stile spazzaneve, cristiania, agonistico… – ma Hemingway ci ha spiegato che cos’è lo stile nel suo senso più alto, il Grande Stile, quello che è sinonimo di eleganza, di classe; quello che è distinzione da chi proprio non ce l’ha, da chi è volgare; quello stile che è pura, irresistibile seduzione perché in esso vediamo e riconosciamo il meglio della nostra specie. E – cosa a me cara – Hemingway ha trovato questa prodigiosa definizione cercando di spiegare uno sport, uno sport forse un po’ anomalo: la Corrida. Che lo sport e lo sci in particolare siano una fonte inesauribile di pensiero e non solo mera pratica fisica; che essi siano un modo preferenziale per capire la vita e i nostri limiti, e non solo i limiti fisici ma dell’essere uomini in generale è quello che vado dicendo da anni. Hemingway definì la corrida «grazia sotto pressione». Per lui i movimenti danzanti del torero al cospetto della furia assassina del toro erano «grace under pressure». Ovvero bellezza, eleganza, stile. Dove i più fuggirebbero, vinti dalla insostenibile pressione mentale di essere infilzati a morte dalle corna del toro, il torero compie la sua danza elegante. Hemingway ci dice che mantenere la grazia nella difficoltà della situazione è avere stile. Tutti i campioni dello sport hanno questa capacità. Riescono a celare il loro sforzo sotto un velo di armonia. Cioè sanno fare cose incredibili come se fossero cose da poco. Fatica, paura, fragilità, stanchezza sono vinte in un gesto composto, misurato, degno. E qui c’è l’uomo nella sua massima espressione di umanità. Dallo sport alla vita il passo è breve. I minatori cileni sono riusciti a non impazzire dopo 69 giorni sepolti vivi nel buio e nel fango, dividendosi il pochissimo tonno e il pochissimo latte che avevano. Quando affondò il sommergibile Kursk, il capitano scriveva nel suo diario: «moriremo, ma senza disperarci». Voleva dirci che stavano vivendo quelle loro ultime ore da campioni della nostra specie. Ecco, a volte si pensa che il campione sportivo sia amato perché è un vincente in una società in cui tutti vogliono vincere. Che piaccia, perché, come vincente, è un divo, va in televisione, ha soldi, donne, successo; ha una vita super. Ma il campione è un campione perché prima di tutto è capace di «grace under pressure», non per altro. Se non fosse capace di ciò, non sarebbe un campione e non avrebbe, quindi, tutto quello che consegue al suo esserlo… fama, soldi, successo… Sta qui la nostra stupidità: ammirare un campione non per il suo talento, ma per i suoi talenti; ammirarlo non perché sa mantenere la grazia sotto la più incredibile delle pressioni, ma perché ha denaro e successo. E poi, nella nostra vita sportiva e non, imitare ciò e non il suo Grande Stile. III
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