Ci sono uomini al servizio dello sci che nessuno vede, uomini invisibili, ma senza di loro non ci sarebbe la Coppa del Mondo, circuito costituito da una serie di eventi. Chiamiamoli così, perché la gara è solo quello che la gente vede e che gli atleti affrontano.
In realtà non c’è solo la competizione nuda e cruda, momento agonistico che non dura, nella normalità, più di un paio d’ore, premiazione compresa. Quei 120 minuti esistono perché ci sono mesi di lavoro alle spalle. Mesi di sudore che inzuppa anima e corpo di quegli uomini invisibili di cui non si conosce nulla.
A chi può interessare? Appunto, proprio a nessuno, ma la cosa mi sembra un po’ indecorosa.
Ebbene, proviamo allora a fare uno sforzo di serenità e obiettività. Perché si prestano a simil partecipazione? Per il bene dello sport? In minima parte certamente sì, ma c’è un altro aspetto preponderante. L’amore per la propria terra. L’orgoglio di far vedere al mondo intero che il loro piccolo paese di montagna sa essere forte e potente quanto una grande città.
Pensano che quel piccolo agglomerato di case in pietra sia tutto il mondo. Lo si voglia o no, i luoghi da dove veniamo e siamo cresciuti ci plasmano e influiscono su di noi fino al nostro essere più profondo e contribuiscono a renderci quelli che siamo e a foggiare la nostra identità. Sì, credo proprio che quella dedizione straordinaria dipenda da questo.
L’amore sviscerale per la loro terra. Della quale sanno riconoscerne la luce, la neve, i venti e le stagioni del tempo che si susseguono all’unisono con quelle della loro anima. Di fatto hanno quasi soltanto questo e a loro si affidano.
Gli uomini invisibili della Coppa del Mondo sono tantissimi ma il gran numero non basta a far quadrare sempre le cose.
In Alta Badia quegli uomini hanno lasciato le loro case per trasferirsi in pista di giorno e di notte, senza soste. Per iniziare a muso duro una guerra contro il tempo che stava per sconfiggerli. D’altra parte potevano brandire soltanto una pala per togliere l’eccesso di neve su un terreno che avevano già preparato ad arte nei giorni precedenti.
E quando sembrava che tutto fosse ormai a posto hanno dovuto ricominciare tutto da capo a poche ore dal fischio d’inizio.
Logico, il terreno non poteva luccicare come al solito. Quando ti specchi dentro e hai la conferma che quel muro non può che appartenere alla Gran Risa. Ma la gente questo non lo sa. Attende le 9 e 55 per accendere la Tv e godersi lo show.
E magari storce un po’ il naso quando vede che la partenza non è quella che ricordano e che il muro iniziale è sparito. E si stupisce nel vedere i numeri uno della specialità in balia degli sci che sbattono come il movimento di un martello pneumatico.
Alcuni atleti al traguardo hanno avuto da ridire. Non quelli lontani dai piani alti delle classifiche, bensì i vincitori reali e morali della gara. Quelli che, tra l’altro, sono i più abituati di tutti, a casa loro, a sciare in condizioni di neve difficile, con poca luce e col gelo. Markus Waldner, capo della Coppa del Mondo li ha ripresi. Ha anche pensato di multarli in uno sfogo. Poi ci ha ripensato. Non è successo niente.
Ma possiamo capire la reazione in un momento di sfogo di cui il collega Savio è stato testimone. Il motivo è uno solo: anche Markus era sulla Gran Risa con quelle persone. Sa cos’hanno messo in pista nel tentativo estremo di concedere una chance a quei ragazzi che invece di ringraziare si sono messi a ringhiare. Parole pesanti quanto ingiuste, arrivate a segno come stilettate che tagliano in due le gambe.
Ragazzi norvegesi, questo non si fa. Ed erano già anche stati avvertiti due giorni prima in Val Gardena, dove si era consumata la stessa scena. Davvero disperati gli uomini della Saslong che hanno potuto assistere soltanto a una gara, dilaniata dal tempo. Una maratona durata quattro ore, necessarie per far scendere una cinquantina di atleti, attori di un superG inesistente nel contenuto.
Anche lì gli uomini di pista sono morti dalla fatica per amore della loro terra con un senso elevato di patriottismo. Valore che le nuove generazioni non sanno nemmeno che esista. Se la discesa non ha avuto luogo e se il superG è stato una farsa non è colpa della Val Gardena. Anzi, è la Val Gardena la vittima non gli atleti o il pubblico.
Il tempo non lo puoi né battere né combattere, puoi soltanto cercare di difenderti. Lo sanno bene anche in Val d’Isère che su quattro gare, due maschili e due femminili, ne hanno portate a casa una sola. Gli uomini invisibili, erano ben presenti anche là, con il loro ardore e con un raro talento nel sopportare la fatica. E non sono stati ripagati da nulla perché la scritta race cancelled è stata abbastanza eloquente.
Un dolore che dovrebbe portarli su un’unica scelta: «Col cavolo che l’anno prossimo sarò ancora lì, in pista con la pala in mano, per ore ed ore, notte e giorno, a sistemare continuamente quello che il tempo ti costringe a rifare».
Invece no, non sarà così. Anche senza pacche sulle spalle o la soddisfazione di non esser morti di fatica per nulla, non sposterà di una virgola il loro senso di volontà e di amore per la loro terra.
Questi uomini invisibili sono fatti così, non cambieranno mai. Se qualcuno vuole ringraziarli, lo può fare.