Un tempo la frattura della gamba rappresentava il tipico trauma dello sciatore.
Questo perché l’uso di scarponi con gambaletto corto in materiale morbido accentuava il meccanismo rotatorio, responsabile dell’evento lesivo, e anche perché la stessa tecnica, caratterizzata da movimenti torsionali e non angolari, favoriva a sua volta la frattura.
La rottura che si verificava frequentemente era nella parte mediale della tibia, o in quella distale, e il gesso costituiva nella gran parte dei casi il trattamento d’elezione.
Anche quando la frattura veniva trattata cruentamente con viti e placche, l’immobilizzazione con gesso era necessaria. Questo perché il tipo di trattamento non garantiva una stabilità ottimale della patologia trattata.
Infatti il carico (l’appoggio del piede) non poteva essere concesso precocemente a scapito dello stimolo meccanico indispensabile a favorire i processi di guarigione (callo), con la conseguenza di lunghissimi tempi di ripresa funzionale.
Attualmente, l’impiego dei materiali usati in campo traumatologico si è notevolmente evoluto, con lo scopo di garantire la sintesi e la stabilità della frattura per poter appunto concedere un carico precoce.
A seconda dell’abitudine del chirurgo, del tipo di lesione, dell’età del paziente, si possono usare chiodi endomidollari, placche e viti o fissatori esterni senza l’ausilio di apparecchio gessato.
Sia le placche che i chiodi endomidollari costituiscono sistemi interni aderenti all’osso e, grazie alle loro proprietà meccaniche, riducono e stabilizzano molto bene la frattura, concedendo un carico (appoggio del piede) precoce.
Rispetto a un tempo, i materiali e la stessa forma di questi mezzi di sintesi si sono notevolmente affinati, sono stati alleggeriti, sono più anatomici e sottili. Pertanto l’immobilizzazione con gesso non è più necessaria e il ritorno alla deambulazione avviene in tempi brevi.
Tuttavia le complicanze non sono in assoluto dimenticate e, anche se ridotte in termini d’incidenza, sono ancora presenti. Si tratta di complicanze vascolari, settiche e soprattutto dei ritardi di consolidazione della frattura.
Queste situazioni potevano assumere proporzioni drammatiche e se non trattate adeguatamente portavano al fallimento del trattamento chirurgico.
In questo caso le possibilità si indirizzavano verso la revisione della sintesi chirurgica, nella bonifica dell’osso infetto o nella resezione del focolaio pseudoartrosico (mancata consolidazione), ma il tutto senza un’assoluta garanzia di successo.
Una notevole svolta nel trattamento sia delle fratture in fase acuta, ma in particolare degli insuccessi e complicanze, è stata data grazie all’avvento dei fissatori esterni, sia circolari che assiali.
Si tratta di apparecchiature che sono costituite da una parte portante esterna, resa solidale all’osso grazie a fili di metallo e a viti (fiches) che attraversano l’osso.
Pur essendo altamente stabili, evitano ai minimi termini le complicanze infettive e, essendo elastici, favoriscono la stimolazione del callo osseo.
In particolare, il fissatore circolare trova in Ilizarov, fantastico ortopedico russo degli anni Sessanta, il suo ideatore.
In Italia questa tecnica divenne nota dopo che vi fu sottoposto il grande alpinista Carlo Mauri a seguito della mancata guarigione di una frattura di gamba.
Nel corso degli anni, il principio di questa filosofia ortopedica è poi rimasto invariato, ma si sono affinati i materiali e, grazie all’applicazione informatica, si sono raggiunti livelli estremi di applicazione e di precisione.
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