26 febbraio 1985, trentacinque anni fa Leonardo David ci lasciò. Uno dei momenti più tristi dello sci Azzurro. Vi riproponiamo la storia di alcuni di quei terribili momenti nel racconto di Erich Demetz. Dunque questa è la versione sua. Ovvero colui che era al parterre d’arrivo quando Leo crollò vicino a lui il 3 marzo 1979. Giorno della prova della discesa libera pre olimpica di Lake Placid, quando Leo, cadde in vista del traguardo, si rialzò, ma da lì a pochi minuti perse conoscenza entrando in coma. E non ne uscì più.
Ero molto amico di Davide, il papà di Leo. Abbiamo anche gareggiato assieme ma lui era più bravo. Ricordo che vinse il titolo italiano di discesa e una di quelle Fis B che si facevano allora. Io militavo nelle Fiamme Oro e quando a Gressoney c’era il trofeo Weissmatten la squadra stava sempre a dormire a casa sua, anzi nella pensioncina che aveva la moglie Mariuccia.
La stima non era indifferente. Ricordo che quando scoppiò il caos dei maestri di sci abusivi, le note giubbe rosse, lui stava dalla mia parte, era un mio sostenitore. Non eravamo amiconi per la pelle, ma c’era un rapporto comunque molto bello.
Lo dico perché poi purtroppo la tragedia di Leonardo distrusse ogni cosa. Quando presi le squadre nazionali nel ’78, David era già un buon emergente perché si era già laureato campione italiano juniores di discesa.
Sul ghiacciaio dello Stubai si era subito fatto notare in alcune gare, diciamo di pre-stagione, e i tecnici mi dissero subito: «Stai attento a quel ragazzo, che quello cresce bene». Infatti non tardò a salire sul podio di Coppa del Mondo, dopo aver vinto la Coppa Europa, finché nello slalom di Oslo del 7 febbraio 1979 riuscì a vincere battendo Ingemar Stenmark e Phil Mahre.
La vittoria in Coppa del mondo di Leonardo David nello slalom di Oslo. Riuscì a imporsi davanti a Ingemar Stenmark e a Phil Mahre
Io non ero lì, ma all’Aprica per seguire delle gare di Coppa Europa ma anche per onorare una riunione federale. Ero chiuso in un hotel assieme ad Arrigo Gattai, davanti alla Tv, e terminata la gara Leo fece una dichiarazione che mandò il presidente su tutte le furie: «Adesso vado negli Stati Uniti per fare le ultime due discese libere».
Gattai saltò sulla sedia: «Ma chi lo ha autorizzato?». Si rivolse a me in maniera perentoria: «Adesso tu vai a Cortina e gli dici in modo più assoluto no! Lui gare di discesa non le fa!». Naturalmente andai a Cortina dove erano in programma gli Assoluti.
Parlai intanto con Sepp Messner, allenatore dei discesisti che in un certo qual modo era un po’ il mio vice. Mi disse: «Certo che ho parlato con David. Lui non vuole fare le due discese per vincere, ma solo per effettuare una ricognizione intelligente in virtù delle Olimpiadi dell’anno successivo».
Leo agli Italiani di Cortina dove cadde in discesa 26 febbraio 1985 trentacinque
L’obiettivo era vincere l’oro in combinata anche se non era valida come titolo olimpico, ma solo come titolo mondiale. Cominciai a riflettere. Era stato campione italiano di discesa seppur tra i giovani, quindi aveva un buon rapporto con la velocità.
Inoltre ricordavo di aver letto una sua intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport dove lui narrava ciò che un giorno gli disse il padre Davide: «Ricordati che campione lo diventi solo se vinci una discesa».
Comunque andai a Cortina. Il suo corpo militare, l’Esercito, l’aveva iscritto anche alla discesa e io lì non potevo intervenire perché in quell’ambito decidevano le società. Ero al traguardo ma riuscii a seguire la sua prova attraverso gli altoparlanti delle radioline: «David partito, passata la Esse, superato il piano, anche il curvone… David caduto».
Rimasi senza respiro in attesa di comunicazioni rassicuranti che in effetti arrivarono dopo pochissimi secondi: «David è in piedi, nessun problema». Al corner degli allenatori lo stesso Leo ci rassicurò: «Sto bene, tutto ok». Il giorno dopo c’era lo slalom sul Col Drusciè ma il baby fenomeno concluse la prima manche al setitmo posto con un ritardo di 1 e 7.
Possibile? Pochi giorni prima batteva Stenmark e ora… Lì c’era un medico che avevo chiamato perché Pierino Gros soffriva di terribili mal di schiena. Venne da me e mi disse. «Signor Demetz, io ho un po’ di perplessità con questo ragazzo, io lo manderei a fare una visita neurologica. È d’accordo?»
Figuriamoci se non ero d’accordo. Mi indicò anche dove, a Lecco. David doveva passare da Milano e quindi recarsi a Lecco per le visite, ma la clinica avvisò che non si era visto ancora nessuno. Allora chiamai la Luisella, la segretaria dello sci alpino, e le dissi, «Guarda Luisella, mandalo subito a Lecco ,perché altrimenti non parte per gli Stati Uniti».
Leonardo assieme a Ninna Quario. I due erano grandissimi amici 26 febbraio 1985 trentacinque
Luisella, che era un vero generale, lo chiamò e lo convinse. Gli esami non riscontrarono nulla e diedero il via libera per il prosieguo delle gare. I primi giorni a Lake Placid li dedicammo a ottime sessioni di allenamento su terreni piuttosto ripidi e impegnativi.
Ma si avvicinava il giorno della discesa. Mi trovai a colazione assieme a Messner, Gros e Leo. Sepp disse a Pierino, anch’egli sorteggiato per la discesa: «Pierino, non ha tanto senso che tu faccia la discesa. Vai su, la guardi e poi vai a fare allenamento in gigante».
Pierino non disse nulla ma non ci rimase un granché bene, tant’è che intervenne Leo: «Beh, questo potrebbe valere anche per me, allora».
Ma Messner troncò così la discussione: «Leo, ne abbiamo già parlato, per te sarà solo una ricognizione». Il discorso finì lì. Nella notte era caduta un po’ di neve e la pista non offriva difficoltà particolari.
Ero al traguardo e ascoltavo ciò che accadeva in pista attraverso le radioline. Sullo schuss finale c’era un dosso che accennava appena a un salto di poco conto. Con un atteggiamento tecnico piuttosto insolito, David si staccò dal salto ma si aprì, girandosi di schiena.
Leo e la sua famiglia: papà Davide (che ieri, 25 febbraio 2020, ha compiuto 91 anni), mamma Mariuccia e sorella Daniela 26 febbraio 1985 trentacinque
Sbatté la testa sulla neve, perdendo il casco, ma l’impatto non sembrò così terribile. Tant’è vero che Leo non tardò a rialzarsi, prese il casco e superò il traguardo raggiungendoci al parterre. Io segnavo sempre i tempi intermedi e assieme a lui iniziammo ad analizzarli.
Poi mi chiese: «E il tempo finale?». Non feci in tempo a dirgli: «Leo, ma sei caduto alla fine…» che appoggiò la testa sulla mia spalla, lasciandosi poi cadere sulla neve, praticamente sui miei piedi. Pensavo stesse quasi scherzando. Gli dissi: «Ma dai, Leo, alzati che prendi freddo».
Vicino a me c’era il fotografo Armando Trovati e il nostro sguardo, in una frazione di secondo, passò dalla normalità al totale disorientamento. Feci un passo indietro per creare un po’ di spazio e vidi i suoi occhi completamente bianchi e la lingua che rientrava.
Iniziai a urlare come un pazzo. Chiamavo soccorso ma non veniva nessuno. Non sapevo cosa fare. Aveva fatto in tempo ad arrivare lì anche Pierino che, testardo com’era, ma questa era anche la forza di un grande campione, aveva voluto fare ugualmente la discesa.
Pure lui si mise a urlare e posso assicurare che quando Pierino alza la voce c’è da avere paura. «Fate qualcosa, dannazione, non vedete che sta morendo?» Piero aveva un numero di partenza oltre il 50 e solo due settimane dopo ho ricostruito che Leo doveva essere rimasto lì a terra in quelle condizioni per almeno 15 minuti. è bene ricordare che in quei periodi non c’era, come oggi, un medico ufficiale al seguito della squadra.
La pista Weissmatten a Gressoney, intitolata a Leo fu presto realizzata. Da qualche tempo però la società che la gestisce potrebbe decidere di chiuderla. Speriamo che questo non avvenga.
Venivano affiancati dottori dei corpi militari in servizio di leva. Eravamo negli Stati Uniti, la patria dell’efficienza, e invece non interveniva nessuno! Il primo ad avvicinarsi fu un medico canadese che estrasse dal marsupio un attrezzo di plastica per aprirgli la bocca e tirargli fuori la lingua.
Poi arrivò una specie di slitta con delle assi sopra e assieme a Messner lo caricammo per trasportarlo noi stessi al pronto soccorso. Lì c’era un medico che non mi lasciò entrare. Dopo un quarto d’ora circa uscì per dirmi. «È incosciente, ma il ragazzo respira. Non è messo poi così male, ma lo portiamo lo stesso a Burlington, che è dall’altra parte del lago».
Chiamai subito la Fisi e dissi a Luisella di avvertire la famiglia. Venne immediatamente organizzata la trasferta dei genitori negli Stati Uniti. Con un taxi andai a prenderli all’aeroporto di Montreal e da lì raggiungemmo Burlington dopo 5 ore anziché 2 perché l’autista riuscì a perdersi tra le stradine che tagliavano i boschi.
Mi rimbomba ancora oggi nel cervello la disperazione di mamma Mariuccia che, con la testa appoggiata sulla spalla di Davide, sussurrò con una voce strozzata dal singhiozzo: «Ma, Davide, perché lo abbiamo fatto partire che aveva mal di testa… Ti ricordi l’altro giorno che, tornato da un brevissimo allenamento in slalom, si è buttato con gli scarponi sul letto in preda a una forte emicrania?».
È lì che per la prima volta venni a sapere che aveva avuto dei problemi, cosa che invece confidò ad alcuni suoi compagni di squadra. Ma a noi non aveva detto nulla di particolare. Molto tempo dopo l’incidente venni anche a conoscenza di un altro episodio, anche se non ci sono prove in merito: Leo avrebbe scassato una macchina in un incidente a Courmayeur, anche se il fatto non è mai emerso dagli atti giudiziari.
Sì, perché la faccenda finì per lungo tempo in tribunale, in seguito a un fatto che reputo molto brutto. Due giornalisti, ma non faccio i nomi – uno mi ha chiesto pochi giorni fa l’amicizia su facebook – avevano preso un elicottero per andare a Burlington e tornati fecero uno scoop: avevano parlato con l’anestesista che a loro dire dichiarò: «Quando abbiamo esaminato la testa, trovammo nel cervello sangue coagulato».
Credo di ricordare che i due scrissero «very old blood», ma non ne sono più sicuro. Questa notizia avviò una feroce campagna di stampa contro di me e Gattai e si allargò anche al Coni che allora era presieduto da Franco Carraro. Venne fuori questo quadro: «‘Sti dirigenti che per farsi belli mandano a morte dei ragazzi…». Ci furono quattro stadi di processo inizialmente per lesioni colpose.
L’azione di Leonardo David nello slalom di Oslo – 26 febbraio 1985 trentacinque
Poi iniziò tutto da capo perché Leo, dopo sei anni di coma ci lasciò. Era il 26 febbraio 1985. L’accusa divenne di omicidio colposo. Dopo dieci anni arrivò un’amnistia che io non volevo però assolutamente firmare. Ma Carraro e soprattutto Gattai mi dissero: «Tu credi che la giustizia sia una cosa aulica, al di sopra di…; firma, perché ti conviene».
Così firmai anch’io. Ma sia Erich che Messner furono comunque prosciolti per non aver commesso il fatto, in una prima sentenza del Tribunale di Milano, prima ancora che terminasse l’istruttoria avviata dal giudice di Aosta, Gianni Franciolini, nel 1989.
E così pure Gattai e Carraro. Davide David aveva chiesto 10 miliardi di lire di risarcimento, ma dovette pagare oltre 100 milioni di spese legali, ndr.
C’è da dire che nel corso dell’iter processuale, grazie a una rogatoria internazionale, fu ascoltato l’anestesista che intervenne in quei momenti drammatici. In realtà quel medico citato negli articoli dello scoop non era mai esistito, il suo vero nome era Henry Schmidek.
Nell’interrogazione ricordò di avere incontrato due italiani che però non sapevano l’inglese e tanto meno lui l’italiano per cui non riuscirono a spiegarsi. Ma comunque testimoniò che in quei frangenti non avrebbe mai dato informazioni di quel genere a nessuno, tanto meno a degli sconosciuti.
Disse anche che l’ematoma era frutto della caduta di quel giorno. Fece anche presente che nella sua veste di anestesista era addetto alle attrezzature e che non aveva visione del campo operatorio vero e proprio.
In poche parole quello scoop fu del tutto inventato, ma costò tanti anni di processo (che, forse, ci sarebbe stato lo stesso…), ma indubbiamente partì tutto da lì. Ci fu un solo condannato a quattro mesi con la condizionale: quel medico militare, perché durante il volo verso l’America Leo gli aveva chiesto diverse volte un’aspirina per alleviare il mal di testa.
Leo nella disgraziata prova della discesa di Lake Placid del 3 marzo 1979 26 febbraio 1985 trentacinque
I magistrati valutarono che forse in quel momento la cosa avrebbe dovuto insospettire al punto da impedire che Leo partecipasse alla gara. Durante la discesa il medico si trovava in pista, ma anche se fosse stato al traguardo non avrebbe potuto far nulla, secondo me.
La caduta di Lake Placid fu troppo blanda per provocare un trauma del genere. Il danno fu causato probabilmente dalla caduta di Cortina o a causa dell’incidente d’auto che peraltro io non so nemmeno se ci sia mai stato.
Lo dico solo perché furono alcune persone di Gressoney che me lo raccontarono. Il problema è stato che nella clinica di Lecco, dove Leo si sottopose alla Tac, non fu possibile approfondire l’esame con il cosìddetto «fondo degli occhi», perché in Italia c’erano poche macchine in grado di farlo. Probabilmente quell’esame avrebbe potuto dare altre risposte.
Nel corso del suo disperato stato di coma, Leo fu portato in una clinica di Innsbruck da un esperto in materia. Pare che in precedenza fosse riuscito a risvegliare alcune persone attraverso tecniche particolari. Andai a trovarlo ma trovai davanti alla porta della sua camera la madre: «No, tu qui non entri».
Tornai a casa. Davide non lo vidi più prima di un’assemblea federale a Ostia dove lanciò accuse molto pesanti. Lo incrociai su una scala assieme al presidente della commissione medica della Fisi. I due iniziarono a scambiarsi una serie di accuse di responsabilità. Fu l’ultima volta che vidi il papà di Leo. Questo è stato uno dei più grandi dolori della mia vita sportiva.
Ieri, il papà di Leo, Davide David fondatore della Scuola Sci Gressoney, ha compiuto 91 anni.