Quattro anni fa, a Vancouver, complessivamente non era andata benissimo per la spedizione italiana alla 21a edizione delle Olimpiadi Invernali. Il bottino era stato solo di cinque medaglie (1 oro, 1 argento, 3 bronzi), sei meno di Torino 2006, sette meno di Salt Lake City 2002. Per non parlare dell’accostamento alle 20 medaglie di Lillehammer 1994, l’apogeo della presenza azzurra alle Olimpiadi bianche nel cuore dell’epopea di Alberto Tomba, Deborah Compagnoni e del miracoloso fondismo italiano dei De Zolt, dei Vanzetta e dei Fauner, delle Di Centa e delle Belmondo. Tutto sbagliato, tutto da rifare? Insomma, nello sport non è mai il caso di essere drastici ma il 16° posto italiano nel medagliere di Vancouver 2010 segnalava certamente un calo (per non dire un crollo) di valore dei nostri movimenti sportivi in ambito invernale (neve e ghiaccio) a partire dalle due discipline forti dello sci alpino e dello sci nordico. Proprio nell’ultimissimo giorno, quello dello slalom maschile, San Giuliano Razzoli salvava l’Italia strappandola per i capelli dall’inferno ma senza riuscire a redimerla del tutto. Per lo slalomista emiliano, il tracciato sul pendio di Whistler Mt. era ideale e lui se l’è mangiato come un tortello di mamma Tiziana scatenando la sua impressionante potenza controllata dalla forza dei nervi distesi. Un oro meraviglioso che, al cospetto dei cinque cerchi e in campo maschile, nella specialità delle porte strette non arrivava dal 1988 (Alberto Tomba, Calgary). Con quel trionfo si erano chiuse Olimpiadi abbastanza maledette per l’Italia dello sci alpino, con un grappolo di podi persi per poco (Werner Heel e Johanna Schnarf al quarto posto nel superG), speranze irrisolte (l’emergente Federica Brignone affondata in un gigante femminile corso a singhiozzi; il «nascente» Dominik Paris secondo nella discesa della supercombinata e poi perso tra i pali dello slalom) e sogni infranti (i gigantisti maschi, ottimi in Coppa del Mondo sul ripido ma incapaci di adattarsi a percorsi morbidi e lontanissimi dal podio). Senza fare retorica sulle «medaglie di legno», i risultati nudi e crudi dicevano che, al cospetto dei cinque cerchi, la brutta scivolata azzurra rispetto a Torino 2006 riportava l’Italia indietro di oltre vent’anni, nel periodo del vuoto lasciato nello sci da discesa dallo scioglimento della Valaga Azzurra e quando lo sci nordico, dopo la fiammata degli anni ’60, doveva ancora diventare il prodigioso miracolo che sappiamo.
La preseza azzurra del medagliere si era fortemente scolorita e per consolarsi non bastava sbirciare in casa altrui per spulciare, ad esempio, tra le delusioni austriache nello sci alpino (nemmeno una medaglia in campo maschile come non era mai successo) o quelle finlandesi nello sci di fondo (idem). Guardando in casa nostra andava eretto piuttosto un monumemto ad honorem al grande Armin Zöggeler e al suo slittino per una volta di bronzo dopo essere stato d’argento a Nagano nel 1998 e d’oro sia a Salt Lake City che a Torino: alla sua quinta olimpiadi il fuoriclasse di Foiana non mancava ancora una volta il bersaglio del podio e contribuiva a salvare la barca azzurra. Altrettanto straordinario il bronzo di Alessandro Pittin nella combinata nordica, prima, storica medaglia italiana alle Olimpiadi nella specialità Cenerentola dello sci nordico. Nello sci di fondo, quattro anni dopo i trionfi della staffetta maschile e di Giorgio Di Centa nella 50 km a Torino 2006, si era assistito ad un vertiginoso calo di rendimento che aveva avuto il suo culmine nella disfatta proprio della staffetta maschile. Soltanto il veterano Pietro Piller Cottrer era riuscito a salvare l’onore del fondismo azzurro con la medaglia d’argento nella 15 km skating e a ricollegare a stento con quel piazzamento la pallida Italia fondistica di Vancouver con la gloriosa e prolifica tradizione del passato recente. Nello sci alpino salvato invece da San Giuliano dopo l’astinenza totale di Torino 2006, fino all’ultimo giorno non tutto era andato per il verso giusto, anzi tutto sembrava andare per il verso sbagliato. Soprattutto il naufragio del gigante (vinto dallo strepitoso Carlo Janka di quella stagione) aveva illuminato carenze di adattabilità ambientale (piste e neve) e di tenuta mentale che avevano vissuto nell’ennesima «incompiuta» di Max Blardone il loro momento emblematico. In un panorama dominato in campo maschile da «vecchi» (Bode Miller), collaudati (Aksel Lund Svindal), nuovi fenomeni (Carlo Janka, appunto..) e in campo femminile da qualche conferma (più Maria Riesch che Lindsey Vonn) e da diverse sorprese (Andrea Fischbacher, Viktoria Rebensburg), lo sci alpino italiano non era certamente estinto ma certamente non dava nemmeno una immagine di ottima salute.
Su ghiaccio si era subito dissolto il miraggio di poter rivedere l’Enrico Fabris sorprendente del 2006 nel pattinaggio di velocità e si era spento male il sogno di avere una conferma olimpica dalla Carolina Kostner campionessa europea quell’anno nell’artistico. Soltanto quel formidabile donnino di Arianna Fontana aveva espresso un acuto da podio nei 500 mt. dello short track prima di ingarbugliarsi in una antipatica polemica interna alla squadra. Insomma, Vancouver 2010 non è stata certamente una delle migliori Olimpiadi per l’Italia degli sport invernali ma nemmeno una tragedia. Le tragedie vere sono altre, come quella del georgiano Nodar Kumaritashvili, una vita di 21 anni che si era persa schiantandosi contro un palo di ferro della pista di slittino quando ancora le Olimpiadi dovevano aprirsi. Quattro anni dopo le considerazioni da fare sono le stesse: lo sport agonistico è un inno alla vita e alla giovinezza, si gareggia per vincere, si può anche perdere.
L’importante per ognuno è dare il massimo di se stessi, onorare al meglio la rappresentanza della propria Nazione, più che mai sul massimo palcoscenico dello sport che sono le Olimpiadi. Ma con serenità e senza fare tragedie. Come andrà Sochi 2014 per l’Italia? Speriamo bene, speriamo meglio di Vancouver, speriamo che il nostro bilancio non sia Nero, come quel mare su cui si affacceranno i sogni degli Azzurri
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