Chi non conosce l’abilità di Henrik Kristoffersen, l’istinto fatto a persona? Gli appassionati, tutti, ovvio. Ma siamo convinti che non sia chiaro ancora a molti cosa frulli realmente in testa e nello stomaco al fenomeno norvegese.
Cosa succede a un fenomeno che trova sulla sua strada un fenomeno più fenomeno di lui? Chiedetelo a Henrik Kristoffersen, il predestinato cui Marcel Hirscher ha tarpato le ali per anni, continuando a ripetere che sarebbe stato il suo successore. O forse ancora no. Lo si scoprirà con le prossime gare con quel filotto di slalom che potrebbero giocare a suo favore.
Intanto, con la pista spianata davanti agli sci, Henrik prosegue il suo cammino verso la gloria con la solita determinazione, la solita rabbia agonistica e una dote, l’istinto, che lo rende unico in pista e pure fuori.
Ma qui non vogliamo riferirci ai fatti di cronaca recente, bensì parlarvi di Henrik in un altro modo. Un ragazzo che forse non ancora tutti conoscono per come è.
Lo abbiamo incontrato negli Stati Uniti, ad Aspen, dove ha preparato il gigante di Beaver Creek (chiuso al 2° posto dietro allo scatenato Tommy Ford) e proprio l’istinto è stato il tema principale della nostra chiacchierata.
«L’istinto per me è la capacità di reagire senza pensare. Commetti un errore? Ti salvi facendo il movimento giusto al momento giusto. A differenza di molte altre, è una dote che si può apprendere e allenare, ma se ce l’hai naturale è molto meglio e io credo di averla.
Non per niente nel mio curriculum ci sono davvero poche gare che non ho terminato a causa di un errore. Penso infatti di essere molto bravo a risolvere situazioni complicate riuscendo addirittura a prevedere quello che succederà nei prossimi secondi e facendomi quindi trovare pronto a reagire.
L’istinto nello sci viene fuori quando sei al cancelletto di partenza e devi spingerti fuori senza pensare, facendo in automatico movimenti che hai provato mille volte in allenamento. Guai se dovessi pensare a quello che devi fare!
Nello sci le variabili sono infinite e non puoi allenarle tutte. La pista, la neve, il tracciato cambiano sempre. Per questo è importante l’istinto, per sapersi adattare a ogni situazione nel minor tempo e nel miglior modo possibile».
Parliamo di Marcel Hirscher: quante volte hai dovuto rispondere a domande su di lui?
«Non lo so, migliaia? Fino alla scorsa stagione ho vissuto tutta la mia carriera al suo fianco e mi sembra strano che ora non ci sia più. Ma resto molto motivato, non era certo la sfida con lui a darmi la carica, anche se è vero che grazie a lui ho dovuto a volte superarmi e andare oltre i miei limiti, in gara ma soprattutto in allenamento».
Hirscher diceva sempre che saresti stato tu il suo successore, cosa ne pensi?
«Il mio sogno in effetti è essere lo sciatore più forte e completo nell’arco dei cinque mesi su cui è spalmato il calendario di Coppa del Mondo.
arebbe davvero bello proseguire la tradizione norvegese e portare a casa una grande Sfera di Cristallo, ma non sarà facile. Sulla carta potrei fare 1600 punti focalizzandomi sulle prove tecniche, gigante, slalom e parallelo.
Nel mio programma ci sono anche il superG e la combinata di Hinterstoder a fine febbraio (a queste due gare si è aggiunto il gigante annullato in Val d’Isère, ndr), ma per ora vado avanti un passo alla volta, cioè una gara alla volta. I conti si faranno alla fine».
Hirscher è stato per te un esempio, anche per la creazione di un team privato, giusto?
«Sicuramente bisogna prendere esempio dai migliori e cercare di imitarli. Io l’ho sempre fatto fin da piccolo, quando guardavo in tv le gare e poi le studiavo nei minimi dettagli con mio padre Lars, per migliorare la mia tecnica.
Per stare al passo con Marcel ho creato il mio team privato guidato proprio da mio padre, ho raddoppiato il numero dei miei skimen (il brianzolo Marco Zambelli si è unito al francese Yul Petitjean nella stagione 2018/19, ndr) e ho cercato di allenarmi curando la qualità e ogni minimo dettaglio.
Possibilmente da solo, la situazione che mi permette di rendere al massimo e di dare elasticità ai miei programmi. Sto vivendo una situazione ideale che ho voluto e creato, ma questo non offre la garanzia del risultato, purtroppo!».
Sei sempre stato un vincente, fin da piccolo. Ti hanno insegnato a farlo o sei nato competitivo?
«Sono cresciuto con l’idea che vincere fosse importante. Perché fare una gara se non per vincerla? Fin da bambino mi hanno insegnato a dare il massimo e se non andavo bene nessuno mi diceva bravo lo stesso, mi dicevano che dovevo impegnarmi e migliorare per fare di più.
Quando poi ho capito che una vittoria regala le migliori sensazioni possibili, ci ho preso gusto e ho solo cercato di provarle il più spesso possibile. In ogni caso nella mia carriera ho perso più gare di quante ne ho vinte!
Ma posso assicurare che la cosa più bella della mia vita è vedere luce verde dopo aver tagliato il traguardo».
Perdere ti scoccia proprio però. A volte ti fa anche perdere il controllo…
«È vero, a volte mi arrabbio troppo, è ancora l’istinto a farmi comportare come non dovrei, con reazioni esagerate soprattutto al traguardo, quando non sono contento di una prestazione.
Vorrei cambiare, ma poi mi dico: perché? Sono io, sono così, sono in ogni caso un atleta onesto e leale. So perdere, ma visto che lo sci per me è tutto e che nella vita non faccio altro, perché accettare di farlo male se posso farlo meglio?
So bene che a volte dovrei controllarmi di più, se guardo indietro penso e credo di essere migliorato, ma voglio restare me stesso e non fingere di essere quello che non sono.
Lo sport regala emozioni forti, senza di quelle sarebbe noioso, io non riesco a restare indifferente, ci tengo davvero a fare bene e non riesco a nasconderlo».
A fine stagione sarai soddisfatto se?
«Se avrò fatto bene il mio lavoro e vinto ancora un paio di gare. Ovviamente non dipenderà solo da me. E non avendo il potere di controllare quel che fanno gli altri, posso solo concentrarmi sulle mie prestazioni,. E cercare di migliorami e di dare sempre il massimo. So che se riesco a farlo i risultati poi arrivano».