La Rosa Kuthor, teatro della discesa Olimpica maschile, per gli aspetti ambientali, boschi di faggi, neve velocissima, la vicinanza al mare che come una porta aperta espone la pista a tutte le manifestazioni del meteo, mi ricorda le mie nevi d’origine , quelle appenniniche. Nevi da capire perché, benché lavorate, additivate e mischiate con quelle artificiali, non assicurano mai quell’omogeneità dei manti alpini Europei.
Quindi dialogare con la neve russa per farsela amica, una strategia che il nostro Innerhofer ha messo in atto sin dalle prove dove, testando in modo frammentario la discesa più lunga di questa stagione, ha voluto si amministrare la sua autonomia energetica ma anche, uscendo dalle canoniche interpretazioni degli allenamenti cronometrati opzionate invece dai favoriti Miller e Svindall, soprattutto instaurare un feeling elettivo con ciascuna delle tre sezioni di una libera definita dal DT Tecnico Ravetto “la Discesa del futuro” con il suo lancio iniziale tempestato da passaggi serratissimi, strettoie a fulmicotone, salti (come non se ne vedono più in Coppa del Mondo), traverse, curvoni che scecherano i pensieri ma soprattutto che spremono come limoni le cosce muscolosissime di questi uomini JET.
Insomma: nulla di scontato nel primo appuntamento Olimpico che apre le danze dello sci alpino, una sfida spettacolare giocata sul filo dei centesimi, battagliata proprio in quei passaggi infidi che mi hanno tenuta in punta di sedia, nostalgica di quelle intensità emotive che solo la regina dello sci può regalare ad un atleta che vuole vivere l’Olimpiade come un sfida contro i propri limiti, con solo un paio di assi di legno a separarlo dal baratro.
Un baratro che ha da subito dominato, bramato il nostro “Inner” con un cambio al volo tra le curve a parabolica iniziali che la dice lunga sulla confidenza che si è concesso con quelle pendenze celate da una visibilità piatta, soprattutto nella seconda metà gara. Un fil rouge, quello del sincronismo con i dossi ed i movimenti della neve, lucidata e compattata dalla brezza notturna, che ha scortato l’iridato altoatesino fino alla fatidica “curva padella” ( a circa 1’.10”) dove ha saputo egregiamente spalmare la sua azione, dosando le forze tangenziali che hanno invece fatto deragliare più esternamente avversari del calibro di Miller. Un’interpretazione geniale di un passaggio determinante in termini di velocità (114,00 KM circa) paragonabile per pulizia e decisione solo a quella del vincitore Matthias Mayer.
Un testa a testa, quello tra il giovane emblema del Wunder Team della velocità ed il veterano quanto acciaccato capitano dell’ Italjet, che ha visto in tutta la prima metà gara in vantaggio di 4 decimi circa proprio il generoso “Inner”, all’unisono con la pendenza ed il tracciato finché quest’ultimo, imbrigliato dai tanti dossi, ha sabotato le linee fino ad allora perfette del chirurgico Christof … indice di stanchezza? o forse la sua schiena dolorante si è impercettibilmente irrigidita? Da questo terzo intermedio il vantaggio rispetto al rampante asburgico, leader provvisorio della gara, si azzera, regalandoci così un duello virtuale sentenziato da quello che per tutti noi comuni mortali è un banale tratto di transizione tra il penultimo spettacolare saltone (70 i metri di parabola aerea) e lo schuss finale che piomba sul traguardo. Già, l’analisi in parallelo svela che proprio in quel breve rettilineo si semi curva sul piede destro, avviene il sorpasso da parte dell’austriaco Mayer che mangia centimetri preziosi scegliendo una linea più interna rispetto ad Innerhofer che proprio nella sua curva destra soffre di una quasi irrilevante defezione d’ingresso d’anca. Sei, i centesimi che hanno assegnato l’Oro a Mayer e l’Argento a Innerhofer, un argento che per determinazione ma soprattutto per guizzo tecnico vale un oro anche in considerazione di quel misero 1,66 cm che separa le due piazze d’onore. Riflettori spenti invece per i due grandi protagonisti Svindall e Miller. Il norvegese non propriamente in sintonia con la Rosa Khutor, ha impresso fin troppa energia creando attriti superflui nei lunghi curvoni prima della traversa ma soprattutto pagando 40 centesimi in un solo intermedio. A mio parere un gap pesante generato proprio da un atteggiamento remissivo nella “curva Padella”, curva in cui la sua potenza si è tradotta in rigidità, una latitanza prestazionale in ogni caso sopperita in casa Norwey dal bronzo di Jansrud, che ha invece trovato l’ottimo compromesso tra forza e scorrevolezza …
Delusione anche per Miller, nelle prove velocissimo nel tratto iniziale che probabilmente ha giocato il suo Jolly nell’ultima discesa di prova, ahimè quella che non conta. Voglia di strafare, il light motive della discesa Olimpica dello Statunitense che ha scontato a caro prezzo le sue linee troppo dirette, l’arretrata sull’interno a pochi secondi dal via come lo spettacolare calcio alla luna sul salto in prossimità dell’ultimo intermedio. Amarezza senza recriminazioni invece per il resto della compagine azzurra tutta racchiusa nei primi 15 ed egregiamente rappresentata da un Peter Fill, 7°, che compromette solo tra i due salti finali la sua prova fluida e velocissima nel primo settore, un Werner Hell, 12°, un po’ troppo all’arrembaggio e succube della scarsa visibilità ed un Dominik Paris , 11°, al quale, visto l’esito stagionale sabotato dalla caduta sui Ciaslat, non si poteva proprio chiedere di meglio …
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